Sapete, raramente mi scopro
soddisfatto appieno di quel che scrivo e dò alle stampe, ma «Luna e sabbie
mobili», la mia quarta raccolta di poesie – in libreria in questi giorni, edita
da “Il ponte vecchio” – è, in un certo senso, l’eccezione che conferma
la regola.
Dopo averne verificato più
volte le bozze – prestando doverosamente attenzione, in quella sede, ad
eventuali errori di battitura, refusi eccetera – da un paio di settimane,
grazie alla solerzia del mio editore, l’ho per le mani e, per quanto mi costi
ammetterlo, devo confessare che a questo bastardo di Coronavirus – che pure ne
cagiona il rinvio a data da destinarsi della presentazione – un merito va pur
riconosciuto: è fuor di dubbio, infatti, che esso mi dia l’agio, il tempo e il
modo di leggerla con tutta calma e di constatare che, questa volta sì, così la
volevo, così l’ho pensata e concepita, e
così mi è venuta.
Già, perché «Luna e sabbie
mobili» – che nasce esclusivamente dall’esigenza del sottoscritto di esternare
il proprio stato d’animo – è il racconto, in versi, di quella che è stata ed è
– da un anno e mezzo a questa parte – la mia “quotidianità esistenziale”; già,
perché «Luna e sabbie mobili» è una silloge cruda, sincera e spietata che – a
ben vedere – concede poco o nulla a quella sorta di “ottimismo di maniera” (lasciate
che lo definisca in questo modo) che si vorrebbe andasse per la maggiore,
quando invece so per certo che, nella mia come nella vostra realtà, sono le
sabbie mobili a fare la parte del leone.
Vedete, tutti noi – giorno per
giorno – lottiamo per non soccombere, per non lasciarci soffocare e sopraffare
– appunto – dalle sabbie mobili di una società, quella contemporanea, che – dietro
un dinamismo apparente – non fa che perpetuare modelli sempre uguali e ormai
stereotipati come il ciclo naturale delle stagioni.
Stante quanto sopra, allora,
non è un caso che proprio il ripetitivo, monotono ed immutabile avvicendarsi di
primavere, estati, autunni e inverni faccia da sfondo, da “fondale scenico”
perfetto al dipanarsi dell’intreccio emotivo che rappresenta il fulcro centrale
di una raccolta, questa, che è – ad un tempo – intima e “antropologica”,
personale e sociale: perché?
Perché, se è per mera ventura
che il destino si avvede della necessità del poeta di esprimersi, ciò si deve –
paradossalmente ma non troppo – alla circostanza in forza della quale la
postmodernità imperante ha toccato il fondo, l’esasperante ed illogico
predominio della funzione sulla struttura ha mostrato la corda e l’anomia di Durkheimiana
memoria – cioè quella perdita di valori che, secondo il filosofo e sociologo
francese, era stata prodromica all’avvento della società moderna – torna, pure agli
albori di un ventunesimo secolo nato amorfo, monco e distorto, a farla da
padrona.
In altri termini, il paradosso
vuole che il cosiddetto “secolo breve”, in punto di fatto, sia tutt’altro che
morto e sepolto, se è vero com’è vero che la società postmoderna continua ad
ignorare, non solo e non tanto il senso ottocentesco della differenza tra
solidarietà meccanica e solidarietà organica, quanto il significato letterale –
ancor prima che etimologico – della parola solidarietà, nonché a fare strame
dell’empatia che ad essa dovrebbe accompagnarsi.
E il poeta?
Il poeta non può – se questo è
il quadro ed il contesto – che ritrovarsi più che mai solo, non può che
avvertire più che mai il peso di una diversità – la sua – che è umana prima che
intellettuale e – conseguentemente – non può che lanciare un grido, un’inascoltata
ed incompresa richiesta d’aiuto, convinto com’è che l’ansia che lo attanaglia,
lo soffoca e gli fa mancare il fiato sia la stessa che imbriglia la vita dei
suoi simili, ma che costoro preferiscano (chissà perché?) evitare di prenderne
atto, quasi come se il destino della specie fosse ineluttabilmente segnato,
come se le curve che il fato disegna non potessero essere che cieche, come se non restasse altro da fare che lasciarsi
abbagliare dal gioco sciocco delle parvenze.
Ecco, è a queste sabbie mobili
che il poeta, in un certo qual modo, si rassegna: ne combatte e ne contrasta –
beninteso – la forza opprimente, ma constata anche la sostanziale
irreversibilità della situazione.
Lo sa bene, a lui basta poco –
da poeta – per ritrovarsi, senza parole, nell’abbraccio dell’infinito, oppure
per riscoprire tutta la bellezza e la purezza del senso della vita e della
poesia in una rosa che resiste ad una nevicata, ma lui col paradosso guerreggia
e scende a patti quotidianamente, mentre il resto del mondo – purtroppo – fatica
persino a concepirne l’esistenza: infatti, per gli altri – per quasi tutti gli
altri – esiste semplicemente la ferrea logica matematica in virtù della quale
uno più uno fa due, ed è “gioco, partita e incontro”.
Sì, perché – per gli altri,
per quasi tutti gli altri e per il mondo – tutto il resto non esiste o – se
esiste – non può essere detto e, se – pena l’emarginazione sociale – non può
essere detto, allora si può – ed anzi si deve – fare il possibile per non
pensarci e non pensarlo neppure: in fondo – si sa – le regole non scritte sono
molto più cogenti di quelle formali, nella misura in cui anche la politica –
lungi dal farsi carico dell’onere di fornire una prospettiva – si “sterilizza”
nella mera rincorsa trasformistica al
consenso ed alla visibilità, con buona pace di quei principi costituzionali che
ne dovrebbero orientare l’agire, oltre che della decenza.
Soluzioni, vie d’uscita?
Signori, non ce ne sono, dal
mio punto di vista; signori, io – da povero poeta quale pure sono – non ne
vedo; signori, poi – dopotutto – non è a me che dovreste rivolgervi: dunque, a
me – per favore – non domandate.
Sapete, io – se volete – posso
tentare di spiegarvi, ammesso che ci sia una spiegazione razionale, come e
perché – finito un temporale, mentre il sole torna a farsi largo tra le nubi –
può nascere una poesia; io, se volete, posso raccontarvi come e perché – a
volte – si scrivano versi financo per scaramanzia, tentando di esorcizzare il
timore – sempre presente – che la nostra fine giunga troppo presto e troppo in
fretta; io, se volete, posso dirvi che fermarsi dove si è e prender fiato – in
taluni casi – è sufficiente a far ‘sì che il fantasma d’un vecchio amore “a
senso unico” se ne resti relegato tra i ricordi; io, per esperienza personale,
posso parlarvi di come – inaspettato ed ormai insperato – un nuovo amore,
finalmente ricambiato, sia perfino in grado di instillarvi il dubbio che – poiché un’anima di
raso può diventare una casa accogliente e sicura – allora, forse, c’è ancora
modo di salvarsi dall’imminente, vertiginoso tracollo.
Più di questo, però – in tutta
onestà – non posso fare, un po’ perché – come accennavo pocanzi – non mi
compete e un po’ per scelta: sono – e ne vado fiero – un uomo di lettere e di
pensiero, un intellettuale – per così dire – e, dunque, a me spetta la
denuncia, non certo la proposta.
Tuttavia – poiché conosco e
studio “gli umani accidenti” – vi esorto a ritrovar voi stessi negli occhi
assetati di vita d’un bimbo: per lui – che ha appena quattro anni – questi discorsi,
adesso, sono ovviamente assurdi (tutta colpa di zio che perde tempo a studiare)
ma, domani, sarà proprio a lui – e a quelli come lui – che dovremo render conto
del come e del perché siamo finiti in questo pantano, del come e del perché –
distratti dal troppo che abbiamo – ci siamo dimenticati d’essere uomini, ossia
di avere il monopolio – e non solo l’usufrutto – di quella Conoscenza che, da
sempre, è l’arma più potente che esista.